UN MODELLO DI OTTIMIZZAZIONE FISCALE E SOCIETARIA DEL PASSAGGIO GENERAZIONALE NELLE IMPRESE

L’art. 3, comma 4-ter del D.lgs. n. 346/1990 (Testo unico sulle imposte di successione e donazione) disciplina una significativa agevolazione fiscale per il passaggio generazione. In particolare, con questa disposizione, il legislatore ha previsto che, in presenza di determinate condizioni, i trasferimenti di aziende, quote e azioni a favore dei discendenti non sono soggetti all’imposta sulle successioni e donazioni.

Tuttavia, questa disposizione, che ad oggi prevede una esenzione totale dall’imposta, è stata di recente sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale, la quale, con la sentenza n. 120/2020, nel respingere i dubbi di costituzionalità avanzati dal rimettente in merito all’esclusione del coniuge dal regime agevolato (che, peraltro, il legislatore ha nel frattempo esteso anche al coniuge), ha espresso dubbi di incostituzionalità della norma così come formulata. Questo si traduce in un motivo di allarme per gli imprenditori che guardano al passaggio generazionale come alla modalità auspicata di trasferimento dell’azienda. E questo perché la sentenza della Corte Costituzionale lascia intravedere un possibile inasprimento del relativo regime fiscale.

Il ragionamento della Corte inizia con un’accurata disamina storica delle agevolazioni in materia di imposte di successione e donazione con riferimento al passaggio generazionale, agevolazioni introdotte a seguito della Raccomandazione 94/1069/CE della Commissione Europea nella quale si dava atto che uno dei principali ostacoli al buon esito della successione familiare era costituito dal correlativo onere fiscale. La raccomandazione, infatti, evidenziava come “uno dei principali ostacoli al buon esito della successione familiare” fosse costituito dall’onere fiscale, al punto da “mettere in pericolo l’equilibrio finanziario dell’impresa e quindi la sua sopravvivenza”, invitando quindi gli Stati membri ad “adottare le misure necessarie per facilitare la successione nelle piccole e medie imprese” e quindi a ridurre i tributi in caso di trasferimento tramite donazione o successione ereditaria.

Nel nostro ordinamento si sono avvicendate diverse riforme in materia. Inizialmente, il legislatore, tenendo conto delle indicazioni della predetta Raccomandazione, aveva notevolmente ridotto, in generale, il peso fiscale delle successioni. Poi, a poca distanza da questo intervento, fu soppressa del tutto l’imposta sulle successioni e donazioni e mantenuta un’imposizione solo sulle donazioni tra estranei o affini o parenti in linea collaterale oltre il quarto grado. Modifica, quest’ultima, che ha avuto vita breve in quanto nel 2006 vi è stata una sostanziale reintroduzione della soppressa imposta sulle successioni e donazioni. Infine, con la legge finanziaria del 2007, si è arrivati alla versione vigente dell’art. 3 comma 4-ter del TUSD il quale, come si è detto, prevede la totale esenzione per i trasferimenti di aziende e partecipazioni di controllo a favore dei discendenti e del coniuge dell’imprenditore indipendentemente da qualsiasi considerazione circa la dimensione aziendale e a condizione che gli aventi causa proseguano l’esercizio dell’attività d’impresa e detengano il controllo per un periodo non inferiore a cinque anni dalla data del trasferimento.

In merito alla disciplina vigente, la Corte esamina i principi costituzionali coinvolti, giungendo alla conclusione per cui, date le finalità alla base dell’agevolazione – cioè quelle di facilitare il passaggio generazionale delle imprese a carattere familiare –, l’esenzione si dimostra in concreto generalmente eccedente tanto rispetto al favor familiae previsto dall’art. 29 Cost., quanto all’ambito di operatività dell’art. 41 Cost.

Oltretutto, la Corte va ancora più a fondo, effettuando un bilanciamento tra l’art. 3, comma 4-ter e gli artt. 2 e 53 della Costituzione. Osservano i giudici come il trasferimento mortis causa o per donazione costituisce un fatto generatore di ricchezza autonomamente tassabile, indipendentemente dalla circostanza che la stessa ricchezza sia stata già tassata precedentemente in capo al de cuius o al donante.

E quindi, in relazione all’inderogabile dovere di solidarietà e al criterio della capacità contributiva, la Consulta ritiene sproporzionato prevedere una esenzione totale che rappresenta, a detta dei giudici, una vera e propria deroga ai doveri di tutti di concorrere alle spese pubbliche.

Enunciazioni, queste, che fanno sorgere più di qualche dubbio in merito alla futura permanenza del regime agevolativo, quantomeno relativamente alle imprese di grandi o medio-grandi dimensioni. E difficilmente tale aspetto potrà essere ignorato dal legislatore che si appresta alla riforma del sistema fiscale.

La stessa Corte peraltro indica esemplificatamene la Sentenza del 17 dicembre 2014 del Tribunale costituzionale tedesco, il quale “ha dichiarato incompatibile con il principio di eguaglianza l’agevolazione fiscale” (analoga a quella oggetto dell’odierno commento) “ritenendola sproporzionata nella parte in cui, estendendosi oltre l’ambito delle piccole e medie imprese, prescinde da ogni verifica delle effettive esigenze delle imprese agevolate”. Indicazione, questa, che dà l’impressione di voler sottolineare l’anomalia italiana che, nel panorama europeo, è l’unica a prevedere una esenzione totale che incide su un’imposta già di per sé al di sotto della media degli Stati membri.

È evidente quindi che, in base a quanto afferma la Corte Costituzionale, c’è motivo per attendersi un cambiamento in peius in materia.

Questo significa che gli imprenditori sono chiamati a prendere decisioni sulla pianificazione del passaggio generazionale, non fosse altro che per la previsione di un probabile e non lontano inasprimento del regime fiscale.

Gli strumenti che normalmente vengono utilizzati per effettuare il passaggio generazionale sono il trust, il patto di famiglia e l’usufrutto. Questi, però, presentano alcuni limiti in ambito fiscale.

Il trust è un istituto giuridico con cui una o più persone, dette disponenti, trasferiscono beni e diritti sotto la disponibilità del trustee, il quale assume l’obbligo di amministrarli nell’interesse di uno o più beneficiari o per un fine determinato.

Con l’istituto del trust è possibile rispondere a molteplici esigenze e necessità. E’ infatti uno strumento molto versatile, utilizzabile in numerosi contesti di pianificazione e gestione dei patrimoni in quanto realizza l’effetto c.d. segregativo del patrimonio, consistente in un fenomeno di netta separazione patrimoniale. L’effetto naturale di tipo segregativo permette quindi di disporre di uno strumento giuridico che oltre a regolare adeguatamente il bisogno da cui la pianificazione patrimoniale è sorta, assicura altresì una protezione patrimoniale con la conseguenza che il patrimonio così separato non potrà essere escusso dai creditori del trustee e dei beneficiati.

La duttilità e la flessibilità dell’istituto lo rende una valida alternativa all’utilizzo di forme societarie, del patto di famiglia o di altre modalità utilizzate nell’ambito della pianificazione del trasferimento generazionale dell’azienda, tuttavia ad oggi il trust ha dei limiti in tema di fiscalità.

Difatti, mutando l’orientamento originario, la Corte di Cassazione dal gennaio 2019 ha invertito l’indirizzo (con oltre 100 sentenze). Il nuovo indirizzo prevede che la “costituzione di vincoli di destinazione” assoggettata alla reintrodotta imposta sulle successioni e donazioni occorre tenere conto, ai fini della tassazione, del presupposto stabilito per tale imposta dal D.Lgs. n. 346/1990, che impone la sussistenza “del reale trasferimento di beni o diritti e quindi del reale arricchimento dei beneficiari”. Dunque, in virtù di tale orientamento, la dotazione del trust non costituisce un presupposto applicativo dell’imposta di donazione e successione, al contrario, il presupposto deve essere individuato nel reale trasferimento di beni e diritti e, quindi, nel reale arricchimento dei beneficiari.  Questo rende incerto quale sarà il regime fiscale applicabile al momento del trasferimento dei beni ai beneficiari. Anche l’Agenzia delle Entrate recentemente, dapprima con un comunicato stampa dell’11 agosto 2021 e poi successivamente con la circolare n. N. 34 /E del 20 ottobre 2022, ha confermato che la tassazione avverrà soltanto al momento dei “trasferimenti ai beneficiari del patrimonio vincolato in trust”.

Il patto di famiglia, invece, introdotto nel nostro ordinamento con la L. n. 55/2006, è un contratto che, ai sensi dell’art. 768 bis e ss c.c, consente all’imprenditore, quando ancora è in vita, di anticipare il momento del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali in favore di uno o più discendenti, evitando che l’impresa, al momento della sua morte, entri a far parte della comunione ereditaria. Al contratto devono necessariamente partecipare tutti i soggetti che sarebbero legittimari al momento dell’apertura della successione dell’imprenditore e, ai sensi dell’art. 768-quater,  comma 2 c.c., i discendenti che risultano assegnatari dell’impresa devono liquidare gli altri discendenti partecipanti al patto la loro quota di legittima con il pagamento di denaro o beni in natura.

Quindi, l’istituto consente all’imprenditore di operare una sorta di successione anticipata dell’impresa con l’accordo di tutti coloro che, in caso di apertura di successione, assumerebbero la qualità di legittimati in modo da regolare per tempo il passaggio generazionale nella gestione dell’impresa.

Il patto di famiglia presenta sicuramente dei benefici fiscali per il passaggio generazionale essendo uno strumento espressamente contemplato dall’art. 3, comma 4-ter del D.lgs. n. 346/1990, e dunque uno strumento con il quale, rispettando le condizioni previste, si può beneficiare dell’esenzione totale dall’imposta di successione e donazione. Tuttavia le attribuzioni ai legittimari non assegnatari dell’impresa non godono del regime agevolato. Infatti, come chiarito dalla Corte di Cassazione n. 29506/2020, queste liquidazioni sono da considerarsi ai fini impositivi come donazione del disponente in favore del legittimario, con applicazione dell’aliquota e della franchigia previste dall’imposta di donazione con riferimento al corrispondente rapporto di parentela o di coniugio.

Infine, il diritto di usufrutto è uno strumento tradizionalmente utilizzato in sede di passaggio generazionale sia perché semplice nel suo impiego in quanto ben disciplinato dalla legge, sia perché ben collaudato, trattandosi di istituti giuridici di antica tradizione.  In particolare, mediante questo strumento si ha il trasferimento della nuda proprietà delle partecipazioni agli eredi con riserva dell’usufrutto vitalizio a favore dell’imprenditore.

Tuttavia, questo strumento presenta due problematiche per la pianificazione del passaggio generazionale: da un lato, alla nuda proprietà non è associato il diritto di voto con la conseguenza che in tal caso non può trovare applicazione la disposizione agevolativa, in assenza di uno dei presupposti necessari, vale a dire la detenzione del controllo ai sensi dell’articolo 2359 c.c, ma se anche si concedesse in via derogatoria il diritto di voto al nudo proprietario, ciò significherebbe privare di potere l’usufruttuario/imprenditore; dall’altro, invece, l’usufrutto è un diritto reale che, se dovesse sorgere la necessità di cederlo prima della naturale scadenza (coincidente con la fine della vita dell’usufruttuario) diventerebbe materia imponibile ai fini fiscali.

Date queste criticità degli strumenti maggiormente utilizzati nella pianificazione del passaggio generazionale, occorre cercare una soluzione che, da un lato permetta di non lasciare valori suscettibili di tassazione futura e dall’altro sia in grado di rispettare tanto i requisiti richiesti dall’art. 3, comma 4-ter del D.lgs. n. 346/1990 per poter usufruire dell’esenzione, quanto la richiesta dell’imprenditore capostipite di mantenere gli assetti di potere (aspetto, questo, spesso indispensabile per assicurare un graduale ed efficace passaggio generazionale).

Per quanto riguarda le s.r.l., la soluzione che abbiamo individuato e studiato è quella di procedere con la donazione della piena proprietà delle quote o in via diretta o, nel caso in cui non venga raggiunto il requisito della maggioranza, attraverso il conferimento in una holding le cui azioni vengono poi donate ai discendenti.

Nella seconda ipotesi, il requisito del controllo è raggiunto mediante la compartecipazione dei discendenti alla società holding la quale, a sua volta, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate con risposta ad interpello n. 552/2021, deve necessariamente detenere il controllo, seppur indiretto, dell’attività di impresa al fine di poter usufruire dell’esenzione ex. art. 3, comma 4-ter, non essendo invece sufficiente il mero controllo di una società holding il cui unico asset sia la partecipazione di minoranza dell’azienda di famiglia.

Prima però di procedere con la donazione della proprietà delle quote, al fine di permettere all’imprenditore capostipite di mantenere poteri di gestione dell’impresa, è necessario modificare lo statuto della s.r.l. conferendo all’imprenditore socio i c.d. diritti particolari.

Questa categoria di diritti è prevista dal comma 3 dell’art. 2468 c.c. il quale, ammettendo “la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione delle società o la distribuzione degli utili”, realizza la valorizzazione della persona del socio e del ruolo del singolo nell’organizzazione della società.

In relazione alla prima categoria (amministrazione della società), rientrano sia i diritti inerenti alla nomina dei componenti dell’organo amministrativo sia quelli relativi al compimento di atti di gestione. Quanto ai primi, esempi di diritti particolari attribuibili al socio sono il diritto di designare persone tra le quali i soci dovranno scegliere gli amministratori, il diritto di esprimere gradimento circa perone designate o nominate da altri soci o di revocarli, il diritto di nominare uno o più amministratori in via diretta, il diritto di ricoprire la carica di amministratore. Quanto ai secondi, invece, rientrano tra i diritti relativi al compimento di atti di gestione il diritto di esprimere autorizzazioni preventive, di veto o di decisione circa il compimento di determinate operazioni gestorie (a prescindere dal fatto che si ricopra la carica di amministratore) o anche il diritto di opposizione a determinate tipologie di atti di gestione anche senza essere amministratore.

Relativamente ai diritti riguardanti la distribuzione degli utili – fermi i limiti imposti dall’ordinamento, quali il divieto di patto leonino ex. art. 2265 c.c. dovendosi, quindi, considerare illegittime clausole statutarie che escludano taluno dei soci da qualsivoglia partecipazione agli utili, così come il limite ex. art. 2247 c.c. che comporta l’inammissibilità di clausole statutarie che attribuiscano il diritto alla fruizione di una somma fissa a prescindere dal risultato positivo d’esercizio – , rientrano in questa categoria il diritto di conseguire una quota di utili in misura fissa, o comunque il diritto di conseguire una quota prefissata di utili espressa in percentuale a prescindere dall’entità della propria partecipazione al capitale sociale, nonché il diritto di conseguire in via prioritaria la quota di utili.

Al di là di questa tipologia di diritti particolari, come sostenuto anche dalla Commissione Società del Consiglio notarile di Milano, i diritti particolari che l’atto costitutivo di una s.r.l. può attribuire al singolo socio, ai sensi dell’art. 2468, comma 3 c.c., possono avere ad oggetto materie non strettamente “riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili”, cui espressamente si riferisce la norma, bensì ulteriori “diritti diversi”, dovendosi ritenere concessa all’autonomia negoziale la facoltà di “liberamente determinare il contenuto” delle partecipazioni sociali, “nei limiti imposti dalla legge”.  Così, a titolo meramente esemplificativo, potrebbe ammettersi l’attribuzione al singolo di speciali prerogative aventi ad oggetto l’aumento o la riduzione del capitale, le regole di circolazione della partecipazione, il diritto di recesso, la convocazione dell’assemblea.

Dunque, si tratta di una tipologia di diritti che, data la pluralità di contenuto che possono avere, permette di rispondere in maniera versatile alle diverse esigenze e richieste di mantenimento dell’effettivo potere al capostipite.

In tema di pianificazione del passaggio generazionale, un aspetto fondamentale di questa tipologia di diritti è che gli stessi si riferiscono esclusivamente alla persona del socio. Si tratta cioè di diritti personali e da ciò consegue che la cessione, parziale o totale, della quota partecipativa implica la mera successione nella qualità di socio, giammai il trasferimento dei diritti particolari connessi, che in caso di trasferimento si estinguono. Analogo discorso vale in caso di decesso del capostipite.

Ciò consente, quindi, all’imprenditore-padre di mantenere assetti di potere a fronte della cessione della propria quota residuale in un momento successivo ai discendenti. Questo avrà un impatto fiscale limitato esclusivamente al valore della quota residua (quella connessa con i diritti particolari di natura personale) mentre tutte le altre quote sono state trasferite in precedenza in esenzione d’imposta.

Per quanto riguarda le S.p.A, invece, la soluzione che soddisfa le esigenze alla base della pianificazione del passaggio generazionale è quella di prevedere nello statuto della società una particolare categoria di azioni che, pur garantendo una serie di diritti, sia soggetta a termine finale di durata. E questo perché, a differenza dei diritti particolari delle s.r.l., i diritti esercitabili in ragione della titolarità di queste particolari azioni, data la natura astratta e impersonale della partecipazione azionaria, costituiscono una caratteristica della partecipazione stessa e, conseguentemente, circolano insieme al titolo, e cioè sono trasferibili con la cessione delle azioni.

A livello normativo, l’art. 2348 c.c. disciplina le categorie di azioni e la dottrina ritiene che la caratteristica della temporaneità possa rientrare nella nozione di “diritti diversi” di cui al comma 2 dell’art. 2348 c.c.

I recenti orientamenti del Consiglio Notarile di Firenze e del Consiglio Notarile di Milano hanno, infatti, riconosciuto la legittimità di talune azioni c.d. “temporanee” o “auto-estinguibili” le quali, pur presentando la caratteristica della temporaneità, consentono al terzo di assumere la qualità di socio e dunque di esercitare una serie di diritti (quali, ad esempio, la partecipazione alla ripartizione degli utili, l’esercizio del diritto di voto in assemblea) che gli permettono di incidere direttamente sulle decisioni più importanti della società.

Dunque, prima di procedere alla donazione delle azioni ai discendenti, occorre modificare lo statuto della S.p.A. inserendo nello stesso un’apposita clausola c.d. astratta che delinei le caratteristiche e la disciplina di queste particolari azioni di cui l’imprenditore capostipite sarà titolare.

Inoltre, se di regola il decorso del termine o il verificarsi della condizione determina in capo al socio titolare il diritto alla liquidazione della partecipazione, è importante sottolineare, in ragione delle esigenze di pianificazione del passaggio generazionale, come il Consiglio Notarile di Milano, con la massima n. 190 “Azioni e quote “auto-estinguibili” del 16 giugno 2020, ha ritenuto legittimo prevedere nello statuto che allo scadere del termine o al verificarsi della condizione, l’azione possa annullarsi senza alcuna assegnazione in favore del socio che ne è titolare.

In sostanza, con la titolarità di azioni caratterizzate dalla temporaneità, è possibile da un lato usufruire dell’esenzione ex. art. 3, comma 4-ter donando la maggioranza delle azioni ai discendenti, dall’altro l’imprenditore potrà continuare ad essere direttamente incisivo sulle decisioni vitali della società e/o ricevere maggiori utili fino allo scadete del termine o fino al verificarsi della condizione previsti nello statuto.